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Il diritto ad essere disconnessi

A distanza di circa due mesi da quando è scoppiata l’emergenza Covid-19 in Italia uno degli aspetti dai quali emerge con chiarezza quanto estesi e pervasivi siano gli effetti di questa pandemia è la quantità di vocaboli nuovi che ormai usiamo quotidianamente: immunità di gregge, R0, plateau, coronabond. A questi dobbiamo poi aggiungere i vocaboli che da mesi usiamo impropriamente, estendendone a forza il significato sperando che riesca a descrivere i nuovi fenomeni ai quali assistiamo. È un fenomeno particolarmente interessante che sottolinea ancora una volta quanto le categorie mentali (e lessicali) che abbiamo siano inadatte a fronteggiare le sfide di un mondo sempre più interconnesso e complesso. Per questo da vent’anni forse non siamo in grado di definire il mondo in cui viviamo se non facendo riferimento a ciò che non c’è più: parliamo di post-globalizzazione, post-ideologie e post-modernità, ma cosa facciamo fatica a definire cosa sia questo post.

Tra i termini usati impropriamente in questi mesi c’è senz’altro il termine smart working, usato per descrivere modalità di lavoro che tutto sono tranne che smart. Secondo la legge 81/2017 che lo regola, lo smart working è caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o di luogo ed è quindi basato sulla promozione dell’autonomia e delle competenze del lavoratore. Non credo valga la pena discutere di quanto questa definizione sia inadatta nell’attuale contesto, sia per i vincoli imposti dal lock-down che dalla totale mancanza spesso di qualsiasi forma di fiducia e autonomia nei rapporti aziendali. Secondo un’inchiesta pubblicata da Bloomberg, molti intervistati dichiarano di lavorare anche 3 ore in più al giorno da quando sono in “smart working”, lamentando in generale maggiore stress e insofferenza (apro e chiudo parentesi, le implicazioni emotive di quello che sta succedendo sono come sempre i grandi assenti del dibattito politico).

Dopo le prime settimane nelle quali causa di forza maggiore molte riflessioni hanno dovuto cedere il passo all’emergenza, in questi giorni sono in molti (in primis i sindacati) a domandarsi quali sono le implicazioni a medio e lungo termine dell’introduzione di forme di lavoro deregolamentate nelle quali il lavoratore deve costantemente dimostrare di stare lavorando. Oltre agli effetti sui singoli lavoratori però, non vanno neanche trascurati gli effetti sulle aziende nel loro insieme, poiché organizzare il lavoro senza poter contare sul “contenimento” degli spazi fisici presuppone necessariamente una organizzazione più efficace, una maggiore digitalizzazione e un management più qualificato. Insomma, se guardiamo al futuro le cosiddette soft skills saranno sempre più imprescindibili.

Se è vero che lo smart working è qui per restare, allora dobbiamo cominciare da subito non soltanto a riportare sui giusti binari ciò che adesso sembra piuttosto un telelavoro senza limiti di orari, ma dobbiamo mettere al centro le persone e la qualità delle loro vite perché altrimenti assisteremo a una escalation di aggressività nei rapporti interpersonali, oppure alla creazione di file di zombie che si tradurranno presto in una nuova emergenza sanitaria nazionale (di depressione). Per farlo le organizzazioni dovranno imparare a relazionarsi tra loro e al loro interno seguendo alcune semplici regole di buon senso, quali ad esempio:

  • Non chiamare qualcuno senza aver prima preso contatti via chat
  • Non fissare call Zoom senza aver prima verificato la disponibilità dei partecipanti
  • Non usare canali di comunicazione personali (WhatsApp o numeri di telefono non aziendali) per comunicazioni di lavoro…
  • …ma evitare allo stesso modo di sommergere i canali aziendali di comunicazioni non lavorative, costringendo poi i partecipanti a rileggersi decine di notifiche per non perdersi magari comunicazioni importanti!

Il tutto per non parlare di alcuni problemi che ai più fortunati potranno sembrare irrilevanti, ma che per altri non lo sono quali ad esempio il consumo della connessione da casa, la disponibilità dei computer, l’aumento della spesa alimentare e di quella energetica, la disponibilità degli spazi o ancora le tutele legate agli infortuni sul posto di lavoro. Insomma, tra i tanti cambiamenti ai quali stiamo assistendo si sta forse aprendo la più grande fase di contrattazione sindacale da decenni a questa parte.

Mai come adesso abbiamo disperatamente bisogno di nuovi concetti, di nuove paia di lenti attraverso le quali guardare un mondo sempre più complesso. Se è vero che le app per il tracciamento dei contagi nelle democrazie occidentali si vanno arenando, se è vero che i luoghi pubblici anche laddove riaprono non sono frequentati, se è vero che la messa in crisi dei nostri sistemi sociali ha risolto in pochi giorni i ritardi storici dei dibattiti sull’emergenza climatica e sulla digitalizzazione, allora al contrario di ciò che molti pensano la sfida che ci attende non sarà una sfida tecnologica ma culturale.

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