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Perché i grafici che riguardano l’Italia sono “piatti” quando guardiamo a metriche relative agli investimenti in realtà innovative?

L’Italia e l’occasione per diventare uno dei prossimi hub dell’innovazione tech

L’Italia è nota in tutto il mondo per le sue bellezze, le sue coste, le montagne, le città d’arte. C’è poco da fare, non esiste un altro paese al mondo delle dimensioni (relativamente minuscole) dell’Italia capace di racchiudere al suo interno tanto patrimonio naturalistico e culturale. Basti pensare che, contando banalmente il numero di siti e luoghi riconosciuti come patrimonio Unesco, dopo di noi, primi assoluti con 53 beni culturali e 5 beni naturali, il secondo paese dopo di noi è la Cina, con 38 beni di tipo culturale e 14 beni naturali, in un territorio grande circa 30 volte quello italiano.

Tutto ciò è noto ai più, e non so quante volte ho sentito la frase “l’Italia potrebbe vivere di turismo”, ma un’altra caratteristica tutta italiana, che ancora una volta si scontra con il suo peso quasi insignificante in termini dimensionali rispetto alla popolazione mondiale, è il numero di invenzioni, innovazioni e brevetti che l’Italia ha consegnato e continua a consegnare al mondo e al progresso scientifico da centinaia di anni, molte delle quali hanno cambiato il mondo.

Infatti, senza andare a scomodare la pila elettrica di Volta, il telefono di Meucci, il reattore nucleare di Fermi, il radar di Marconi, e altre decine e decine di invenzioni che hanno letteralmente cambiato e riscritto la storia dell’umanità dalla loro comparsa fino ad ora, l’Italia ancora oggi è tra i leader dell’R&D e innovatività globale, generando nel 2022 4.864 brevetti (fonte: European Patent Office, EPO), ovvero circa il 2.5% del totale dei brevetti a livello mondiale, che l’hanno posizionata all’11° posto alle spalle di economie quali quella USA, Cina, Germania, Giappone ecc.

Essendo l’Italia la settima economia mondiale a livello di GDP, questo dato dovrebbe far pensare che in realtà dovremmo essere più alti come posizione in classifica, e ciò da un certo punto di vista è condivisibile, ma ciò che non deve sfuggire, è che l’Italia è stata capace di mantenere una traiettoria di crescita nel numero di brevetti depositati nel corso degli ultimi anni (+3,4% nel 2020, +6,5% nel 2021), mentre i paesi più “avanti” di noi (anche gli USA, che sono primi da anni) in termini di numero di brevetti depositati hanno subito il colpo dovuto da pandemie e guerre recenti.

Quando una persona che lavora nel mondo dell’innovazione come me guarda questi dati, la domanda successiva che viene quasi spontanea è: allora perché sento dire molto più spesso di quanto vorrei che in Italia è difficile innovare, che la burocrazia spesso è un blocco, che mancano gli investimenti in R&D, e che le grandi imprese hanno difficoltà a mettere in piedi processi votati all’innovazione, soprattutto quando si tratta di lavorare con il mondo delle startup, che è il mondo innovativo per eccellenza?

Infatti, guardando il volume degli investimenti in startup nel mercato italiano e la sua evoluzione negli anni passati, le metriche sono decisamente a sfavore del pensare l’Italia come un paese innovativo e in cui si investe in innovazione, vedendo che nel 2018 il totale del funding si ferma a poco più di € 640mln (1,6% del tot. EU), nel 2020 a € 760mln (1,4% del tot. EU), nel 2022, l’anno di raccolta più alto mai avuto, tocca i € 2,6bln, ovvero il 2,5% del totale EU, e tornando sotto il 2% del tot. EU nel 2023 con € 1,2 bln (fonte: P101 Report: State of Italia VC 2023).

Di fatto siamo almeno 5 se non 10 anni indietro rispetto ai volumi degli investimenti in startup innovative rispetto a paesi come la Spagna, che a livello di GDP pro-capite è sempre stato più in basso dell’Italia, per non parlare della Francia o della Germania che rispetto all’Italia sono a volumi 8 o 10 volte superiori.

Allora perché questa differenza così netta? Perché i grafici che riguardano l’Italia sono storicamente “piatti” quando guardiamo a metriche che hanno a che fare con gli investimenti in realtà innovative, quando poi a livello di attività di ricerca sembra che il paese sia in fermento e pronto a quel “salto” che tanto meriterebbe?

Ci sono, in effetti, dei dati incoraggianti che si stanno affacciando nei grafici più attuali degli osservatori di innovazione mondiali, che danno l’Italia (per essere onesti più il nord Italia, con focus particolare sulla Lombardia e su Milano) ad un punto di svolta, che potrebbe mettere questo paese, minuscolo da un punto di vista di dimensione fisica, ma rilevante globalmente da un punto di vista di spirito imprenditoriale e creativo, sulla cartina mondiale degli hub tecnologici meritevoli di considerazione, e farne un “place to be” per i futuri imprenditori, o per quelle grandi aziende che sono sempre alla ricerca di posti in cui abbia senso fare degli investimenti per nuovi centri di ricerca, impianti produttivi ad alta tecnologia, poli di incubazione per attività di corporate venture capital o venture building.

Una luce in fondo al tunnel

Una metrica a mio avviso molto efficace per misurare il grado di “maturità” di un ecosistema rispetto a fare il salto innovativo è la conta del numero di “scale-up” (startup che hanno già eseguito la fase di go to market, e sono nella fase di aumento dimensionale con uno sguardo all’internazionalizzazione) presenti nel dato ecosistema.

Come dicevo prima, con molto piacere ho potuto vedere nel grafico qui in basso, creato dalla società di innovation advisory “Mind the Bridge”, Milano come uno degli ecosistemi mappati a livello mondiale, che ha iniziato la sua fase di “scale-up”, e anche se ancora lontano da sistemi geograficamente vicini come Berlino, Parigi o Londra (che in Europa ha sempre giocato un campionato a parte), fa ben sperare come la chance dell’Italia di giocarsi la sua carta nel mondo della futura competitività nell’innovazione tech, più che mai oggi importante per un paese che deve fare della ricchezza di cervelli il suo punto di forza, non potendo contare su ricchezze di altro tipo che sono a disposizione di altri.

I prossimi passi

Ma come si dovrebbe procedere? Quali sono gli ingredienti che un hub che volesse affermare la propria posizione nel mondo dell’innovazione dovrebbe avere? Ovviamente non c’è una formula magica universale, ma sicuramente si sono fatti vari studi sull’argomento, e in modo piuttosto uniforme alcuni fattori emergono come quelli “immancabili” per poter portare prosperità e far fiorire il proprio “humus” di startup e realtà sulla frontiera innovativa:

Connessioni e comunicazione: uno degli ingredienti che nel tempo si è visto permettere ad un ecosistema di crescere è l’intensità e stabilità delle connessioni con altri ecosistemi. Infatti, molti hub nel mondo stanno cercando di passare dall’avere rilevanza “local” a quella “global”, creando iniziative e programmi ad hoc per favorire lo scambio di informazioni, talenti, investimenti e aziende innovative. Questo non solo aiuta l’ecosistema stesso a guadagnare visibilità e reputazione a livello internazionale, ma porta ad uno “spillover effect” verso le aziende dell’ecosistema stesso, che hanno così a disposizione un maggior numero di risorse su cui contare nel momento del bisogno, che sia in termini di ricerca di talenti, capitali da investire o partner per perseguire iniziative di open innovation.

– Impianto regolamentare favorevole: le best practice tra gli ecosistemi globali mostrano una collaborazione spesso “serrata” con le istituzioni locali, che siano a livello regionale o nazionale. In Italia ne abbiamo alcuni primi esempi, come la piattaforma di Open Innovation lanciata dalla regione Lombardia (Link) o l’ente della regione Lazio “Lazio Innova” che mirano a lanciare e gestire programmi volti a favorire l’incontro tra grandi aziende dei loro rispettivi territori e startup/PMI innovative.

– Mindset risk-oriented per veicolare i capitali a disposizione verso l’innovazione: questo è un grande tema che vede molto sbilanciato il vantaggio odierno a favore dei paesi anglosassoni, o di mentalità affine, che non a caso primeggiano nella classifica mondiale tra gli ecosistemi innovativi. I fondi che tipicamente investono capitali nelle realtà innovative sono gli acceleratori di startup, i Venture Capital (VC) e i Corporate Venture Capital (CVC). Alcune regioni del globo che hanno un approccio orientato alla combinazione high risk – high returns, hanno storicamente raccolto i risultati di questo modo di pensare e agire sul lungo periodo, tanto che ad oggi i più grandi “unicorni” globali vengono per la gran parte da USA e UK, e più recentemente dalla Cina e dall’asia più in generale, che sta adottando un modo di operare in gran parte simile, dove il fallimento non è visto come una cosa negativa, ma come un vantaggio per la seconda o terza startup che i founder andati incontro al fallimento creeranno, in quanto potranno fare virtù di quel bagaglio di esperienze, anche se li ha portati al fallimento con il loro primo tentativo.

Per concludere, e dopo aver analizzato alcuni punti in modo più sintetico di quanto meriterebbero, possiamo dire che ci sono alcuni timidi segni incoraggianti sull’ecosistema dell’innovazione italiano, che non rinuncia al suo spirito volto alla creatività. Alcuni player dell’ecosistema, anche internazionale, parlano dell’Italia come uno dei potenziali prossimi tech hub più promettenti, con costi del lavoro e valutazioni delle startup innovative più competitivi degli altri paesi occidentali europei, che permette di trovare dei buoni deal da parte dei VC che puntano al prossimo unicorno, e con un ottimo mix di talenti che permetterebbe di fare bene in termini di idee disruptive e crescita della competitività dell’ecosistema stesso. Sul tema indirizzamento dei capitali, l’Italia dovrà fare un grande lavoro, in quanto soprattutto noi, tra i paesi con il più alto risparmio pro capite al mondo e un mare di liquidità ferma sui conti correnti, come visto prima siamo decisamente “risk-averse”, rinunciando in molti casi ad investire quei capitali di cui il nostro sistema innovativo avrebbe un così alto bisogno, e che potrebbe crescere 10 volte più velocemente di quanto non faccia ora.

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