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Cos’è il Woke-washing? I brand e l’opportunismo sociale

Negli ultimi anni, come più volte osservato e misurato dal nostro Reputation Rating, abbiamo assistito a un’autentica esplosione dell’importanza reputazionale e – ipso facto – economica dei classici temi ESG. Ogni fenomeno, per quanto possa essere salutato con favore e simpatia da tutti noi, porta con sé le sue storture e degenerazioni. 

Ecco perché oggi bisogna stare attenti e “fare l’occhio” su nuovi fenomeni come il greenwashing e il woke-washing.

Che cosa sono il greenwashing e il woke-washing?

La definizione di greenwashing è molto semplice: si definisce, infatti greenwashing, il far credere ai propri stakeholder che la propria organizzazione stia facendo molto di più per l’ambiente di quanto effettivamente fa. Si tratta in altre parole di utilizzare in maniera massiccia e utilitaristica parole ambientaliste che fanno rumore sulla Rete come puro e semplice stratagemma di marketing e non per comunicare un effettivo cambiamento di rotta aziendale.

Allo stesso modo, il woke-washing si definisce come un’adesione di comodo a battaglie e movimenti di giustizia sociale per andare a conquistare la fetta di mercato dei consumatori consapevoli.

Quali sono le battaglie più gettonate?

In questa fase femminismo, anti-razzismo, presa di coscienza sulla salute mentale e diritti della comunità LGBTQ+ sono ovviamente i movimenti più frequentemente sbandierate dai brand. Non ci sia fraintendimento. Parlare di questi argomenti è sempre positivo e costituisce sempre una opportunità di avanzamento sociale per la comunità.

Il problema rimane che le attività di molte aziende raccontano una storia decisamente diversa da quella che gli uffici marketing riescono molto efficacemente a colorare con le giuste tinte per il periodo.

Il caso di Striscia la Notizia

Un caso eclatante è capitato anche in Italia, qualche settimana fa, con le polemiche riguardanti uno sketch – per la verità molto infelice – di Striscia La Notizia, con una macchiettistica imitazione della popolazione cinese. 

Non deve sorprendere forse il fatto che la gogna social internazionale – in parte meritata – nei confronti del programma di Antonio Ricci, sia partita proprio da un brand di moda Diet Prada. Il sospetto che si sia voluto colpire un competitor, Trussardi, tramite la Hunziker, moglie del proprietario della casa di moda, naturalmente c’è. Segno di come il woke-washing porti oggi anche di vere e proprie battaglie reputazionali, che sfruttano la leva della coscienza e dell’attivismo del pubblico per fini tutt’altro che nobili.

Perché il Woke-Washing è particolarmente diffuso tra i brand di moda

Le persone oggi fanno shopping sulla base dei loro valori, ma non è detto che i brand abbiano cambiato i loro. Nella maggior parte dei casi hanno semplicemente cambiato il modo di comunicarli.

Social Network come Instagram hanno reso la conversazione sulle questioni sociali più diffusa e immediata, dando ai consumatori il potere di richiamare e riprendere publicamente e direttamente i marchi. Tra 2020 e 2021, i brand di moda si sono sentiti più volte costretti a prendere posizioni su argomenti spinosi come il Covid-19 o il movimento Black Lives Matter.

Molti brand, come Boohoo, sono arrivati addirittura a produrre linee di abbigliamento comprendenti t-shirt con slogan a favore del distanziamento sociale. Peccato poi che lo stesso brand abbia apertamente violato le linee guida per il distanziamento durante gli shooting fotografici e siano stati dimostrati rapporti commerciali con partner in Paesi in Via di Sviluppo che hanno costretto a più riprese i propri lavoratori a continuare a lavorare, anche in caso di positività al virus.

Come scoprire se si è davanti a del Greewashing o Woke-washing

La risposta non può che essere reputazionale, perché un’agenzia di PR e marketing accorta sarà sempre in grado di camuffare molto efficacemente gli “scheletri nell’armadio”.

Certo, il buon senso può aiutare. Infatti alcuni brand e organizzazioni tendono a utilizzare il woke-washing per distogliere l’attenzione da gravi mancanze nel loro modello di business. Si tratta del solito gioco della trave e delle pagliuzze. Se un brand appare impegnato su mille fronti sociali, senza mai effettivamente impegnarsi anche economicamente in maniera importante e sostanziale su uno, probabilmente c’è qualcosa da nascondere.

Ma, sospetti a parte, sono le certificazioni e i sistemi di rating a fare la differenza. Si pensi ad esempio alla Rainforest Alliance per i produttori di caffè e altri beni che tolgono spazio alla foresta pluviale, o sempre nel caso della moda a Good On You, l’app lanciata da Gordon Renouf, che assegna una valutazione ai brand da cui i consumatori scelgono il proprio abbigliamento sulla base delle posizioni e delle iniziative prese su temi come schiavitù moderna, salari minimi e gender equality.

Costruire una Reputazione solida su questi importantissimi argomenti non è un’attività da mettere in campo, alla bisogna, una tantum. Come in Zwan cerchiamo sempre di spiegare ai nostri clienti, si tratta di un percorso. Un percorso lungo e sostanziale i cui risultati, però, hanno una ricaduta notevole sui fatturati e sulla vita di tutti gli stakeholder coinvolti. E i risultati possono essere misurati e certificati, grazie a sistemi innovativi come il Reputation Rating, che mette intelligenza artificiale al servizio della tua reputazione e della coscienza di chi ti sceglie ogni giorno.

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