Qualche settimana fa sono stata ad un Festival di Chora Media sul mondo dei podcast. Ho partecipato ad alcuni degli incontri proposti e uno di questi si intitolava “Il silenzio fa rumore”. Era condotto da Luca Micheli e Guido Bertolotti, rispettivamente responsabile del suono e sound engineer di Chora. Sebbene parlassero di sound design sotto un profilo tecnico, mi hanno permesso di vagare con i pensieri, e ho deciso di ispirarmi agli spunti che mi hanno offerto per questo articolo. Anche perché è proprio tramite un podcast, Mondo Complesso di Joe Casini, che sono entrata in contatto con la realtà di Zwan.
Uno dei concetti che esprimevano durante l’intervento era che il silenzio non esiste. Facevano riferimento a John Cage, compositore sperimentale statunitense, che nel 1952 fece uscire 4’33’’, una composizione il cui spartito dà istruzione a chi lo esegue di non suonare nulla per tutta la durata del brano. Secondo Cage, il silenzio è parte integrante di un brano musicale e ha la stessa importanza delle note suonate. Inoltre, leggevo che alcuni ricercatori della Johns Hopkins University, sostengono che il nostro cervello interpreti l’assenza di suoni proprio come un suono, come se ricevesse un input acustico di silenzio e lo sentisse.
Ovviamente, per me era impossibile non pensare a Paul Watzlawick e alla sua Pragmatica della Comunicazione Umana. In particolare al primo dei cinque assiomi, quelle proprietà della comunicazione che hanno forti implicazioni interpersonali, in cui enuncia proprio che non si può non comunicare e che, quindi, anche il silenzio è comunicazione.
Facciamo un passo indietro. Il presupposto è che la comunicazione sia inevitabile e rientri nella sfera dei comportamenti (composta tanto da ciò che si fa quanto da ciò che non si fa) e quindi, ogni comunicazione, anche quando non è intenzionale, può sempre essere interpretata come un messaggio portatore di significati.
Questo è evidente in ogni situazione della vita, da quando litighiamo con qualcuno e decide di non parlarci, all’ambito delle crisi di cui mi occupo, in cui la comunicazione è da intendersi come una delle azioni da implementare nella gestione della crisi stessa, forse la più importante. La scelta di comunicare; le tempistiche con cui lo si fa; i contenuti che si decidono di veicolare; i canali e gli interlocutori identificati; comunicano dei valori, delle risorse e delle capacità e, consapevolmente o meno, influenzano notevolmente le relazioni e la bontà della strategia di crisis management.
Perché, anche nelle crisi che avvengono nelle organizzazioni, il silenzio non è un’opzione strategicamente valida? Potrei dilungarmi a elencarne i motivi, ma sono principalmente riassumibili in tre punti. Il primo è che le persone coinvolte, direttamente o meno, hanno diritto di sapere cosa è accaduto, come mai e cosa si sta facendo per attenuare gli impatti negativi della crisi e rispondere alle difficoltà che ha generato o genererà. Il secondo è che, senza comunicare, l’organizzazione non sarà in grado di posizionarsi come leader, interlocutrice autorevole e meritevole di fiducia nel gestire la crisi. E, il terzo, è che qualcun altro – in questo caso media, personaggi pubblici, persone coinvolte dagli eventi, altre organizzazioni, etc. – occuperà quel vuoto comunicativo al suo posto, sviluppando narrazioni non necessariamente veritiere o favorevoli all’organizzazione coinvolta.
E perciò, in questo senso, anche nelle crisi il silenzio fa rumore. Vale più di mille parole, quando viene interpretato come trascuratezza o ammissione di colpa ed è assordante, per coloro che si aspettano risposte o attenzioni che non arrivano. Mi ricorda la camera anecoica (priva di eco) che elimina tutti i rumori e i suoni esterni. Chi vi è stato racconta di aver udito il proprio battito del cuore, il rumore del sangue che scorreva nelle vene e il suono delle articolazioni che sfregavano le ossa. Per molti un’esperienza traumatica. Come quando si è coinvolti in una crisi e nessuno entra in relazione con noi, che è un altro modo per esprimere il significato pieno di cosa significhi comunicare, e tutto quello che abbiamo dentro e stiamo provando viene amplificato.
Eppure, il “silenzio” ha senso nella comunicazione di crisi quando è, consapevolmente, una pausa dal verbale, un momento di ascolto, uno spazio in cui ci si stanno scambiando significati senza utilizzare le parole. Un po’ come lo intende John Cage, per cui ha la stessa importanza delle note suonate.
Ora ti propongo un esercizio prima di salutarti. Pensa ad una situazione di crisi che hai vissuto o alla quale hai assistito, a livello personale o nella tua organizzazione, dove nessuno ti ha detto niente. Sentivi effettivamente silenzio o, quel silenzio, faceva rumore? E se dovessi descriverlo a parole, a quali penseresti?
Se ti va, fammelo sapere!
Io sono Irene e aiuto le organizzazioni a prepararsi e gestire eventi critici. Mi puoi trovare su LinkedIn e IG (@crisis_with_irene).