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I diversi sapori della reputazione

Siamo sempre più abituati ad associare il concetto di intrattenimento multimediale a tutte le produzioni televisive e cinematografiche che provengono dagli Stati Uniti. Hollywood come culla di film, serie tv e documentari ha fin da subito avuto il potere di trasmettere agli spettatori (americani e non) un complesso immaginario fatto di luoghi, abitudini, cultura e prodotti che hanno contribuito a diffondere nel mondo l’american way of life. Proprio i prodotti sono stati una delle leve di maggior effetto sul pubblico, generando un intero universo di consumo all’interno della fantasia degli spettatori di serie, film e videoclip americani. Sono nati nel tempo dei veri e propri miti associati ai brand che ogni giorno ciascuno di noi vedeva nel tubo catodico o su grande schermo: a partire dagli albori di questa forma di product placement con “Colazione da Tiffany”, sono stati moltissimi i marchi che hanno formato attorno a sé un’aura da status symbol, un appeal che da solo bastava a farci sentire quel mondo come esotico, per certi versi irraggiungibile eppure tanto affascinante.

Così basta guardare con un occhio più vigile la trilogia di “Ritorno al futuro” per ritrovare Nike, Mattel, Bmw e molte altre; o anche l’intera scena dedicata a Starbucks in “C’è posta per te” con Tom Hanks; o la presenza costante di Converse e Audi in “Io, Robot”. Con l’avvento delle serie tv il trend non è cambiato, e così abbiamo assistito a veri e propri fenomeni di mercato, quasi case studies, anche nell’era dell’intrattenimento su piattaforma: le slip-on bianche di Vans che hanno visto le vendite schizzare del 7800% dopo “Squid Game”; una puntata di “Modern Family” interamente realizzata su Facetime di Apple e la “joint venture” fra Domino’s Pizza e “Stranger Things” a seguito della quale è nata un’app che permetteva di ordinare una pizza con “il pensiero”.

Questi sono solo alcuni degli esempi di prodotti che, grazie ad una presenza forte in un format popolare, non solo facevano della semplice pubblicità, ma partecipavano attivamente ad imprimere un impatto e una personalità alle produzioni cinematografiche. Non si trattava semplicemente di far conoscere il proprio volto ma di farsi icona, e prendere parte alla formazione di una cultura pop di cui si facevano depositari. In poche parole questi marchi avevano già messo un piede nella porta nei gusti dei consumatori dall’altro capo del mondo creando una “mitologia” in grado di soddisfare bisogni che lo spettatore nemmeno sapeva di avere e generando una reputazione nella visione dei fruitori prima ancora che questi potessero toccare con mano quanto visto sullo schermo.

Eppure certe volte l’immaginario non è condizione minima sufficiente a far funzionare tutto secondo le previsioni, e proprio uno dei nostri esempi ci fa capire quanto una corretta pianificazione sia comunque sempre necessaria. Parliamo, infatti, della storia del percorso di Domino’s Pizza in Italia, un’esperienza utile a capire il vero valore della reputazione e soprattutto di come modi diversi di coltivarla generino risultati diametralmente opposti.

Nel 2015 la grande catena della ristorazione targata USA sbarca in Italia con una sede a Milano e il progetto (più che ambizioso) di aprire un totale di 880 sedi su tutto il territorio nazionale. Forte della sua posizione negli States, della sua immagine già consolidata dalla presenza nei media e dell’aver raggiunto già altri angoli del mercato europeo, per Domino’s era giunto il momento di fare il salto e tentare di conquistare un posto anche nella patria della pizza. La sicurezza nella buona riuscita del piano non riguarda solo l’aspetto culinario, ma anche la logistica che rappresenta un fiore all’occhiello della compagnia: le consegne a domicilio e la struttura del servizio offrono infatti un grande vantaggio sui competitor del settore.

Tuttavia le cose non vanno come sperato. Il volume del business non rispecchia le aspettative della compagnia e come se non bastasse, scemato l’effetto novità dopo i primi quattro anni in Italia, la pandemia colpisce anche il colosso dell’alimentazione. Dal 2020, infatti, le piattaforme di consegna a domicilio sono ormai capillari e normalizzate in Italia e questo dà il colpo di grazia ad un business che in fondo non era mai stato capace di raccogliere il consenso degli italiani. Così nell’agosto del 2022, il gruppo Domino’s Pizza si vede obbligato a chiudere i battenti, almeno in Italia. Ai problemi economici, inoltre, si aggiunge in corsa anche una piccola crisi reputazionale. Domino’s ha lasciato il Belpaese senza dare spiegazioni, senza rispondere alle domande sul futuro della permanenza sul territorio, ma anzi cercando timidamente di promettere un rilancio con nuove sedi. Inutile dire che queste promesse non sono state mai mantenute e ad oggi non c’è più traccia dei 29 ristoranti. E i dipendenti?

Qui entra in scena un secondo player che ci mostra, come già accennato, quanto la reputazione sia un asset da svilluppare con progettualità e facendone un valore fondante dell’identità aziendale. Pochi giorni dopo l’annuncio di Domino’s Pizza, si è fatto avanti Alessandro Condurro, Amministratore dell’Antica Pizzeria Da Michele in the world, pronto ad offrire un lavoro nei punti vendita del franchise partenopeo con annessa formazione professionale ai dipendenti della catena statunitense da poco rimasti disoccupati. “L’Antica Pizzeria Da Michele in the world accoglie l’invito di Alfonso Pecoraro Scanio, presidente della fondazione Univerde e già ministro, e offre posti di lavoro ai dipendenti che l’hanno perso a causa della recentissima chiusura di Domino’s in Italia” ha dichiarato Condurro.

Abbiamo visto, dunque, due realtà che, pur proponendo declinazioni differenti di un medesimo prodotto, hanno deciso di guardare alla reputazione da due prospettive agli antipodi. La prima ha puntato sulla sua forza di multinazionale e sulla fama che precedeva il proprio brand prima ancora che il pubblico si potesse approcciare alla sua offerta, concentrandosi sull’immagine creata nei media durante gli anni; la seconda ha invece ritenuto più importante investire nelle persone e nelle risorse che esse portano, confidando nell’importanza di non disperdere forza lavoro, riassorbendola nel circuito del suo stesso settore. D’altra parte non può esistere una forma di reputazione che non tenga conto delle tutele per l’environment dell’impresa: una reputazione “vuota” fondata sull’idea del profitto è un patrimonio scarsamente spendibile e di breve termine rispetto all’interiorizzazione di un valore che tende al benessere dell’organizzazione e i suoi collaboratori.

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