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Immaginario e reputazione

Dal dibattito sul cinema italiano all’importanza dello storytelling

Venezia 80

C’è un vecchio motto o adagio, forse un po’ misconosciuto, a volte attribuito all’autore francese Joachim du Bellay altre volte allo scrittore Niccolò Franco, che recita semplicemente: “Traduttore, traditore”.  Coinciso ed efficace è un modo di dire che ha varcato i confini nazionali fino ad essere impiegato anche in contesti lontani dall’uso quotidiano della lingua italiana, proprio perché esprime un concetto fondamentale con cui ancora oggi ci scontriamo continuamente in diversi ambiti: l’intraducibilità, l’impossibilità di trasporre (linguisticamente e non solo) elementi di una cultura in modo appropriato, curato e perfino rispettoso.

Eppure, negli ultimi giorni questo motto si è rivelato un’ottima lente attraverso cui leggere l’acceso dibattito scatenatosi all’apertura dell’ottantesimo Festival di Venezia durante la conferenza stampa di Pierfrancesco Favino. Nel suo intervento, l’attore si è infatti detto fortemente contrario al ricorso da parte delle produzioni cinematografiche ad attori americani per ruoli e storie italiani, ritenendo questa pratica una forma di appropriazione culturale che rischia di restituire un’immagine falsata dell’Italia e dei suoi protagonisti. Ovviamente tutto ciò ha scatenato un gran polverone che non si è limitato al solo mondo dell’intrattenimento ma ha straripato fino a raggiungere la politica interna, come spesso accade nel Belpaese, assumendo i contorni di una questione pubblica in piena regola.

«I Gucci avevano l’accento del New Jersey, non lo sapevate?» la riflessione di Favino si apre con questa frecciata rivolta alla produzione tutta targata USA di House of Gucci, il biopic sulla famiglia dell’omonimo brand, simbolo del Made in Italy nel mondo. A suo modo di vedere, infatti, per la seconda volta in pochi anni, la narrazione di vicende tutte italiane è stata “presa in carico” da importanti produttori cinematografici che hanno attivato lo star system a stelle e strisce per farne un blockbuster, e quest’anno la pietra dello scandalo è Ferrari, il film che racconta l’ultima parte della vita di Enzo Ferrari, presentato quest’anno a Venezia in anteprima.

«C’è un tema di appropriazione culturale, non si capisce perché, non io, ma attori del livello di Toni Servillo, Adriano Giannini e Valerio Mastandrea non sono coinvolti in questo genere di film che invece affidano ad attori stranieri lontani dai protagonisti reali delle storie, a cominciare dall’accento esotico. Se un cubano non può fare un messicano perché un americano può fare un italiano? Ferrari in altre epoche lo avrebbe fatto Gassman, oggi invece lo fa Driver e nessuno dice nulla. Mi sembra un atteggiamento di disprezzo nei confronti del sistema italiano, se le leggi comuni sono queste allora partecipiamo anche noi».

Oltre le polemiche

Certamente quelle di Pierfrancesco Favino sono state parole forti, dettate probabilmente anche da una sorta di difesa della professionalità sua e dei suoi colleghi più che da un semplice moto di chiusura nei confronti degli attori provenienti da altri Paesi. Al netto della spigolosità delle sue dichiarazioni, però, emergono alcuni spunti di riflessione su temi assai delicati che vanno dall’argomento specifico fino ad un concetto più generale.

A gennaio, quando abbiamo pubblicato il ventinovesimo numero di Reputation Review, abbiamo scelto di trattare un argomento piuttosto preciso, ossia il sogno americano. Ci siamo interessati di toccare quanti più campi d’interesse riguardassero questo tema, dall’ambito business a quello artistico, cercando di recuperare le vere radici di quello che è da sempre conosciuto come l’american dream ma che oggi sta cambiando volto. Per condurre questa ricerca, abbiamo coinvolto numerosi profili di italiane e italiani residenti negli Stati Uniti provenienti dal mondo del lavoro, da quello accademico e culturale, e da questo mosaico è scaturita, oltre all’indiscutibile capacità dei singoli nel farsi strada negli States, anche la voglia di ribaltare in maniera costruttiva quello che talvolta hanno avvertito come una sorta di stereotipo nei confronti della comunità italoamericana.

Se da un lato è vero che ad oggi gli italoamericani sono un gruppo rispettato e ben voluto all’interno della società d’oltreoceano, è pur vero che alcune scorie di un vecchio mondo continuano ad esistere seppur in misura nettamente inferiore. Per questa ragione abbiamo anche attivato un’inchiesta reputazionale sulla popolazione italoamericana dalla quale è emersa un’immagine estremamente positiva, ossia quella di una comunità composta da grandi lavoratori, eccellenti innovatori e membri perfettamente inseriti nel tessuto produttivo del Paese. Ma allora qual è il punto della polemica sollevata da Pierfrancesco Favino?

Come muoversi?

Nel caso specifico il riferimento è sicuramente legato ad una forma di stereotipo di certo non offensivo ma forse tendente all’imitazione macchiettistica dell’”italian way of life”. Nel cinema specialmente abbiamo assistito a goffe imitazioni dell’accento anglo-italiano o all’improvviso ricorso più o meno sensato a termini dialettali nostrani. Il cosiddetto italian sounding aggiunge un tocco glamour e affascinante e al contempo restituisce inconsciamente un’idea di genuinità che è molto apprezzata all’estero, ma che effettivamente rischia di deviare da una narrazione più autentica.

Allargando maggiormente il focus del discorso possiamo arrivare a dire che essere padroni della propria narrazione è senza dubbio la strada più sicura per presidiare solidamente la reputazione. Lasciare che sia qualcun altro a farlo ci espone a dei rischi che, se sottovalutati per lungo tempo, possono tradursi in una distorsione della nostra percezione difficile da correggere, o peggio, in un ribaltamento completo della reputazione, infliggendoci danni ingenti sotto numerosi punti di vista. Avere il polso del proprio storytelling, quindi, non significa voler escludere altri dal produrre un immaginario relativo a noi, ma essere capaci di indirizzarlo nella maniera più rappresentativa della nostra identità e soprattutto avere il potere e l’autorità di smentire eventuali inesattezze.

Il modo migliore per veicolare la tua narrazione è quello di raccontarti modellando sulle tue esigenze un prodotto editoriale qualitativamente eccellente e capace di consolidare la tua credibilità, per questo abbiamo creato Z-Mag, la soluzione che ti permette di dare voce alla tua brand identity in modo efficace ed accattivante!

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