fbpx

Tempismo e franchezza: gli alleati del crisis management

Diciamocelo chiaro e tondo: da quanto non sentivamo la parola “lanzichenecchi” fino a prima dell’affaire Elkann? Eppure, nell’ultima settimana è stata una delle parole che, più di molte altre, ha rimbalzato fra titoli di giornale, post social, meme e programmi televisivi. Lo stesso incipit di questo articolo prende grandemente spunto dall’originale pubblicato sulla pagina culturale de “La Repubblica” del 23 luglio scorso. Ho scelto di partire dalla parola “lanzichenecchi”, proprio perché nell’arco di poche ore si è caricata di una serie di significati ed è parsa quasi la leva che ha scoperchiato uno dei tanti proverbiali vasi di Pandora.

Ma procediamo con ordine. Per chiunque non sapesse a cosa stiamo facendo riferimento, parliamo di un articolo a firma di Alain Elkann in cui viene raccontata la sua “odissea” in un vagone di prima classe di Italo. Ritrovatosi circondato da adolescenti, l’autore sottolinea le differenze fra il suo atteggiamento descritto come tendenzialmente distinto e assorbito da lettura e scrittura, e quello più sguaiato dei giovanotti che sembrano più presi dalle ragazze e dal calcio. Il pezzo si chiude con una sorta di amara riflessione sulla distanza fra i loro mondi sia per ragioni anagrafiche, sia per interessi. Senza voler entrare nel merito e nella specificità del contenuto giornalistico, però, fin da subito ci sono stati diversi elementi nella vicenda che hanno prodotto una certa dissonanza e che forse sono stati responsabili dell’espansione a macchia d’olio di polemiche, strenue difese, dibattiti e chi più ne ha più ne metta. E che soprattutto hanno generato una crisi reputazionale non trascurabile, sebbene circoscritta.

Partiamo dalla prima questione che ha fatto storcere il naso a non pochi: la posizione dell’autore. Parliamo, infatti, di Alain Elkann il padre di John, Lapo e Ginevra; proprio il primogenito è l’attuale Presidente del Gruppo Editoriale GEDI che si occupa, fra le altre, della pubblicazione de “La Repubblica”. Questo punto a molti non è sfuggito, anzi, è stato da più parti sottolineato come uso sconveniente di una delle pagine centrali del secondo quotidiano per tiratura in Italia, un uso quasi personale concesso (sempre secondo i detrattori) per via del vincolo di parentela di Alain e John Elkann. Già questa scelta editoriale è stata reputata poco appropriata dall’utenza, che si è anche interrogata sul portato letterario del contenuto dell’articolo. Nei giorni successivi, infatti, le opinioni si sono spaccate in due (e più) fazioni.

Da un lato c’è stato chi come Fabio Finotti, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, ha salutato con piacere ed entusiasmo il brano in questione. Si è detto stupito del fatto che ancora esista la possibilità che la letteratura possa suscitare scandalo, e ha difeso l’autore e il suo operato accusando l’onda anomala di reazioni social tacciandola come “cieca prepotenza del gruppo”. Però, è dal web che sono sorte gran parte delle critiche e delle posizioni ironiche che nei giorni si sono scagliate contro Elkann. In tanti si sono in effetti soffermati sul carattere eccessivamente giudicante e a tratti paternalistico dell’autore nei confronti di un gruppo di ragazzi poco più che adolescenti, e soprattutto, tra coloro che non hanno apprezzato l’articolo, sul banco degli imputati è finito anche lo stile con cui si è espresso il giornalista ritenuto troppo vicino ad un linguaggio da piattaforma social che allo standard che si richiede per la pagina culturale di un quotidiano nazionale.

I “malpancisti”, però, in quei giorni non erano solo ed esclusivamente nascosti dietro allo schermo di uno smartphone o di un computer. Il cdr dei giornalisti de “La Repubblica” si è detto distante dalle parole di Alain Elkann e questa distanza avrebbe voluto palesarla proprio a mezzo stampa, fra le pagine del giornale su cui scrivono, ma ad opporsi avrebbero incontrato il direttore della testata Maurizio Molinari, contrario a tale esternazione. Secondo elemento perturbatore che preannuncia il danno reputazionale. Passano giorni di sfottò e discussioni, accuse e difese, un ping pong mediatico che attendeva solo un epilogo per dirsi archiviato definitivamente.

Epilogo che vediamo arrivare solo la mattina del 27 luglio, a quattro giorni dalla pubblicazione dell’articolo incriminato, quando finalmente viene concessa la pubblicazione di una nota sindacale nella quale si esprime la distanza dei giornalisti che lavorano nella redazione de “La Repubblica” dalle parole di Elkann e che apertamente denunciano il danno di reputazione che hanno incassato loro malgrado nel momento in cui hanno sentito traditi i valori fondativi del quotidiano. La bolla inizia lentamente a sgonfiarsi e piano piano si torna ad una sorta di normalità, ma rimane nero su bianco e sotto gli occhi dell’opinione pubblica quanto accaduto aprendo la strada ad una una riflessione importantissima: un corretto crisis management può evitare danni potenzialmente ingentissimi.

I campanelli d’allarme in questo episodio c’erano stati tutti e da fuori si ha come l’impressione che siano stati sistematicamente ignorati dal direttivo del quotidiano di largo Fochetti. Infatti, a partire dalla scelta della “penna”, fino al pubblico sfogo dei colleghi e passando per il tentativo di non far trapelare la posizione degli altri giornalisti, si sono accumulate una serie di leggerezze che hanno portato alla crisi reputazionale di cui parlavamo all’inizio. Ma cosa fare in questi casi?

Sicuramente cercare di nascondere la polvere sotto al tappeto è una soluzione ingenua specialmente nel 2023 in cui il tribunale social è un interlocutore spietato, in particolar modo se si parla di un organo di informazione fra i più influenti in Italia. Uno spunto interessante, però, ce lo offre Annalisa Monfreda, giornalista che è stata anche direttrice di numerose testate fra cui “Donna Moderna”. In un’intervista rilasciata per l’ultimo numero di “Reputation Review” ha riportato una sua esperienza diretta incredibilmente simile a quanto vissuto la scorsa settimana da “La Repubblica”.

«Quando ero direttrice di Donna Moderna mi trovai nel mezzo di una “shitstorm” per un tweet completamente fuori luogo. Risposi con un post in cui dicevo: “è vero, abbiamo sbagliato, ma vi spiego il perché di questo errore” che diventò più virale del tweet incriminato.» ha dichiarato. Questo è un modo piuttosto semplice per far fronte ad un errore, e ci mostra come una mossa avventata o imprudente, se riconosciuta e contestualizzata, possa essere arginata scongiurando il rischio che un sassolino si trasformi in valanga.

Un messaggio di questo genere serve a mettersi in connessione con il pubblico, con i lettori e provare a lavorare su un piano emotivo di empatia dell’errore, far comprendere che da quel punto si può ripartire e che tutti possiamo inciampare in una decisione infelice. Ristabilire un contatto con le persone a cui ci rivolgiamo (soprattutto se parliamo del campo della comunicazione) non può che giovare alla nostra reputazione e all’immagine dell’azienda.

Un altro metodo efficace è quello della prevenzione della crisi e il nostro metodo Z-START offre gli strumenti adatti per impostare fin da subito le strategie di difesa https://www.zwan.it/z-start/

Scroll to Top

Vuoi vivere la Reputation Review Experience?

Compila il form verrai ricontattato al più presto

Hai bisogno di informazioni riguardo Z-Accelerator?

Compila il form verrai ricontattato al più presto

Hai bisogno di supporto?

Compila il form verrai ricontattato al più presto